iI Presidente dell’Europarlamento: «In attesa dei fondi, Roma pianifichi la spesa. Rivedendo procedure, burocrazia e codice degli appalti»
Cosa chiede il Parlamento europeo ai leader europei?
«Quello di oggi è un Consiglio europeo importante. Si apre la partita decisiva, quella che riguarda la ricostruzione delle economie dopo la pandemia. Per l’emergenza abbiamo un ampio ventaglio di fondi e prestiti che sono già rilevanti. Ma la profondità della crisi impone un vero progetto di ricostruzione, un nuovo Piano Marshall, che a differenza di quello del Dopoguerra dev’essere finanziato dagli stessi europei. L’idea degli ultimi giorni, che ha allentato molte tensioni, è di procedere con un Recovery Fund legato al Bilancio dell’Unione e in grado di finanziarsi sul mercato, con l’emissione di obbligazioni, cioè di titoli comuni. Questo va nella direzione di un’Europa solidale che condivide il peso della crisi. Questa catastrofe ha colpito tutti in modo simmetrico, non possiamo rischiare di uscirne in modo asimmetrico con Paesi più danneggiati degli altri. Il Consiglio dovrebbe dare mandato alla Commissione di formulare in tempi rapidi una proposta in questo senso. La previsione è di avere a disposizione oltre 1500 miliardi di euro, una cifra enorme che può essere garantita con l’emissione di bond. A me pare che ci siano maggiori convergenze tra Paesi del Nord e quelli più colpiti dalla crisi. Esiste la possibilità concreta di mettere a disposizione sia prestiti che finanziamenti a fondo perduto da destinare soprattutto a quegli Stati membri che hanno sofferto e soffriranno di più. A questo proposito, sarà utile che la Commissione compia un’analisi approfondita dell’impatto della crisi e in particolare dei settori più colpiti Paese per Paese. Bisogna fare subito e bene».
Fare subito, Presidente Sassoli. Ma il Bilancio al quale viene legato il Recovery Fund parte solo dal 1° gennaio 2021. Otto mesi non sono troppi?
«Certo, ma l’esperienza ci aiuta. Possiamo infatti rendere operativo il fondo subito, mediante la procedura usata per il Piano Juncker: una garanzia temporanea della Banca Europea degli Investimenti, cui poi alla fine si sostituirebbe quella del Bilancio, facendo leva sulle risorse proprie. È un’ipotesi. Sarebbe il modo per venire incontro ai governi europei che chiedono di fare presto e avere a disposizione risorse in tempi brevi».
Angela Merkel si è detta favorevole all’emissione di bond garantiti dal bilancio, usando l’Articolo 122 del Trattato. È questa l’apertura decisiva?
«Se organizziamo il Recovery Fund e mettiamo come garanzia il volume del bilancio pluriennale si possono in effetti emettere titoli. È lo stesso meccanismo che Sure ha usato sulla riassicurazione per i disoccupati, con un massimo di 100 miliardi di euro. La differenza è che in quello strumento la garanzia devono darla direttamente gli Stati, mentre qui viene dal bilancio, il che darà ai bond quotazioni molti favorevoli. La verità è che i bond in Europa esistono già».
Ritiene quindi inutile oggi insistere sugli Eurobond, diventati ormai una specie di trincea per il governo italiano?
«A me pare che il principio sia stato acquisito. I bond saranno uno strumento per finanziarie il piano di ricostruzione e come garanzia avranno il bilancio pluriennale dell’Ue. Saranno i bond più attraenti della scena internazionale».
Una delle obiezioni all’uso del bilancio come veicolo operativo e garanzia del fondo, in alternativa per esempio all’idea francese di creare uno strumento ad hoc, è che in questo modo si ripiomba nel meccanismo dei veti reciproci e dei do ut des, che hanno sempre segnato la trattativa sul bilancio pluriennale dell’Unione. Che non a caso a tutt’oggi non è stato ancora approvato.
«Si tratta di capire come la Commissione ridisegnerà il bilancio dei prossimi 7 anni. Io penso che entro maggio/giugno dovremmo avere sia il Bilancio che il Recovery Fund. È importante, perché se da un lato avere uno strumento ad hoc potrebbe in teoria consentire maggiore rapidità, dall’altro il bilancio è un veicolo già collaudato per sostenere investimenti e crescita. Ci sono già voci definite, procedure sperimentate per l’industria, l’agricoltura, la ricerca. In più si rafforza il quadro istituzionale dell’Unione: la Commissione è già attrezzata e il Parlamento è autorità di bilancio».
Uno dei temi di discussione è che i Paesi più colpiti chiedono che nel Recovery Fund non sia previsto l’obbligo del cofinanziamento per lo Stato che riceve le risorse. Che soluzione prevarrà?
«Nel Recovery Fund ci sono due modalità, i prestiti e i grants, cioè i finanziamenti a fondo perduto. Se dovranno esserci co-finanziamenti statali si vedrà. Ricordo che l’ultimo pacchetto approvato dal Parlamento ha previsto la soppressione dei cofinanziamenti nei fondi di coesione per il 2020. Ma qui si apre una grande questione, che deve preoccuparci tutti: abbiamo bisogno di Paesi che siano pronti a spendere i soldi che arrivano. Sarebbe inconcepibile che stanziamenti di questa portata non trovassero una loro collocazione. Quindi in attesa che il Recovery Fund si materializzi, sarebbe bene che i Paesi si attrezzassero per essere capaci di spendere. È un problema che devono porsi tutti gli Stati, tanto più quelli che saranno più esposti alla crisi. Oggi in condizioni normali ci sono Paesi che non sono in grado di farlo e rimandano i soldi indietro».
Sta parlando dell’Italia?
«Credo che l’Italia debba prepararsi pianificando la spesa. Anche con aggiustamenti, rivedendo, correggendo o razionalizzando le procedure, il codice degli appalti, i meccanismi burocratici che spesso impediscono o rallentano l’accesso alle risorse europee. Non è solo un problema dell’Amministrazione pubblica, centrale o regionale, ma anche di quelle private. Il sistema bancario per esempio deve semplificare la propria burocrazia. Non vorrei si costruisse la leggenda di un’Europa matrigna e ingrata, per fare da schermo a insufficienze di gestione che sono nostre. L’importante adesso è lavorare a progetti. Per esempio, rifondare il sistema sanitario, usando la linea sanitaria del MES».
Ma ci conviene veramente usarlo il MES?
«Il MES è una cassa prestiti. Non è più il vecchio salvastati, nel nuovo regolamento sarà chiaro che non ci sono condizionalità diverse dalla destinazione per spese sanitarie dirette e indirette legate alla lotta al coronavirus. Avrà un tasso molto favorevole, in media dello 0,30%. Può essere conveniente. Per esempio, per creare ambulatori nelle zone industriali dove non ci sono, centri Covid nelle Università, aiutare le regioni commissariate e che non possono fare investimenti o assunzioni. Ma questo lo deciderà il governo italiano».
Un argomento sollevato spesso da Matteo Salvini e Giorgia Meloni per rifiutare l’uso del MES è che le condizionalità potranno sempre essere reintrodotte.
«Non è vero. La nuova linea del MES sulle spese sanitarie ha un’identità ben separata, con un suo regolamento e sue modalità. Chi prende quei soldi, con la sola condizione della destinazione d’uso, li restituirà al tasso e nei tempi concordati. L’altra linea, quella salvastati, non può influire in alcun modo sui criteri o le condizioni di elargizione del nuovo strumento, che sarà il primo operativo dai primi di maggio. Anzi, ci sono Paesi che si sono già prenotati».
Il direttore di un grande museo londinese, Hans Ulrich Obrist, ha lanciato dalle pagine de “La Lettura” un appello internazionale ai governi del mondo per un piano di sostegno finanziario agli artisti, citando a modello quanto avvenne col New Deal di Roosevelt durante la Grande Depressione negli Stati Uniti. È d’accordo?
«Il mondo della cultura è in ginocchio. Ma come possiamo rinascere senza la nostra anima? Il Parlamento europeo ha proposto un fondo per garantire un reddito agli artisti e alle persone che lavorano nel settore creativo, in particolare quello digitale. Dobbiamo ricostruire le nostre economie sulla nostra identità. C’è un problema di grave fragilità di molte aziende strategiche europeo e dobbiamo proteggerle e impedire che siano preda di logiche imperialiste. Oggi in Consiglio farò un appello ai governi per un’attenta vigilanza. Non possiamo esporre il nostro patrimonio a tentazioni predatorie. Dalla crisi si esce con più cultura, più democrazia, più libertà di espressione e non ricalcando modelli illiberali dove la rete e i media sono sotto stretta sorveglianza del governo. Certo un nuovo modello impone un nuovo ritmo e sapremo difendere le nostre libertà e la nostra democrazia sol adeguando i nostri sistemi e rendendoli capaci di dare risposte rapide ai nostri cittadini».