L’economia immateriale assume un ruolo sempre più importante per la società attuale ed è ampiamente dimostrato come vi sia una correlazione diretta tra il ruolo della formazione nell’impresa, la sua produttività e, quindi, la sua competitività. Quest’ultime, infatti, sono strettamente legate alla qualità del contributo umano e alla qualità e quantità degli investimenti. Una ricerca dell’Isfol – Istituto per lo sviluppo della formazione professionale dei lavoratori – dimostra che la formazione determina un miglioramento della produttività aziendale. Si stima, in particolare, che per ogni ora di formazione per addetto i ricavi corrispondenti aumentino di oltre un euro.
La formazione, al pari di altre attività intangibili, è quindi in grado di esercitare un impatto positivo sul Pil, che può essere formalmente contabilizzato. A riprova di ciò, basti pensare che nel 2009 (anno della grande recessione) i Paesi europei nei quali la forza lavoro occupata è stata maggiormente coinvolta in attività di formazione hanno subito una riduzione del Pil meno pronunciata rispetto a quelli nei quali le imprese sono state meno attive in tale direzione. La formazione ha sempre avuto un ruolo determinante nel livello di competitività delle imprese, ma oggi si rivela ancora più strategica a causa della rapidità con cui mansioni e prodotti diventano obsoleti.
Per aumentare la produttività è necessario che il capitale umano presente in azienda possieda competenze sempre aggiornate: formare i lavoratori in tempo reale consente, infatti, di migliorare la qualità del lavoro e di accrescere la produttività e la competitività delle imprese. La quota di istruzione dei dipendenti è, quindi, positivamente e significativamente correlata alla produttività del lavoro. Punto di partenza è, quindi, il capitale umano a disposizione del territorio. Secondo un recente rapporto Istat (ritorni occupazionali dell’istruzione, 2021) nel 2020, il tasso di occupazione della popolazione tra i 25 e i 64 anni registra una riduzione di 0,8 punti, attestandosi al 65,6%. L’impatto della pandemia Covid–19 è stato più marcato per chi ha un basso livello di istruzione: il tasso di occupazione è sceso di 1,1 punti per la popolazione con al massimo un titolo secondario inferiore, di 0,9 punti tra chi ha raggiunto il diploma e di 0,6 punti tra i laureati. Si registra dunque, nel 2020, un lieve aumento del già marcato “premio” occupazionale dell’istruzione, inteso come maggiore probabilità di essere occupati al crescere del titolo di studio conseguito.
Il tasso di occupazione per quanti hanno un titolo secondario superiore è 18,8 punti più alto rispetto a quello di chi ha un titolo secondario inferiore (70,5% e 51,7%) e il tasso tra chi ha un titolo terziario supera di 10,3 punti quello osservato per i diplomati (80,8% e 70,5%). In sintesi, il vantaggio di un laureato rispetto a chi ha raggiunto al massimo la licenza media è di 29 punti percentuali. Ne deriva che, dal 2008 a oggi, il vantaggio occupazionale della laurea rispetto al diploma è cresciuto, mentre quello dei diplomati rispetto a coloro che hanno un titolo di studio più basso è diminuito; a ciò ha contribuito la dinamica dei diplomati che, rispetto agli altri, hanno registrato una perdita di posti di lavoro più forte durante la crisi iniziata nel 2008 e una successiva ripresa decisamente più debole. Nonostante la crescita dell’occupazione all’aumentare del titolo di studio conseguito sia in linea con la dinamica osservata nella media dell’Ue27, le opportunità occupazionali in Italia sono inferiori anche per i livelli di istruzione più elevati. Il tasso di occupazione della popolazione laureata residente in Italia è di circa 5 punti più basso di quello medio europeo (80,8% contro 85,5%): la differenza si riduce al crescere dell’età e si annulla nelle classi di età più mature, dai 50 anni in su.
Guardando al Mezzogiorno, si nota come l’area registra un importante gap in termini di laureati. Nel totale della popolazione tra i 15 e i 64 anni, infatti, solo il 12,6% delle persone è laureato, contro il 18,5% del Centro e il 15,9% del Nord. Tuttavia, va rilevato per il Mezzogiorno anche un significativo fenomeno di migrazione. Secondo stime SVIMEZ dall’inizio del nuovo secolo hanno lasciato il Mezzogiorno oltre 2 milioni di residenti e la metà sono giovani di età compresa tra i 15 e i 34 anni, per quasi un quinto laureati. Il patrimonio del Mezzogiorno in termini di capitale umano risulta, quindi, più debole – e per questo più sensibile – rispetto a quello del resto d’Italia, ponendo l’accento sulla necessità di invertire la rotta, tanto in riferimento ai livelli d’istruzione quanto alle prospettive da associare alla stessa. Dal lato delle imprese, è dimostrato, ormai, come esse riescano a incidere fortemente sulla loro performance economica, incrementando la produttività del lavoro, anche nei periodi di crisi, investendo sull’organizzazione del lavoro, attraverso la formazione del personale e l’introduzione di pratiche organizzative innovative. Secondo recenti dati Unioncamere – ANPAL (Sistema Informativo Excelsior) le imprese non solo sono in continua ricerca di personale qualificato, ma sono anche costantemente impegnate sul fronte della formazione del proprio personale.
Dal lato delle nuove entrate, nel Mezzogiorno le difficoltà di reperimento risultano più modeste rispetto al resto del territorio nazionale, anche se riguardano comunque oltre un quarto delle professioni ricercate. Un altro aspetto di particolare rilievo riguarda l’incidenza dei laureati sul totale delle entrate programmate, che nel 2021 risulta più elevata nel Lazio (18% delle entrate totali), in Lombardia (17%), in Campania, in Sicilia e in Piemonte (attorno al 14-15%). In tutte le altre regioni la quota dei laureati risulta inferiore alla media nazionale. Dal lato della formazione, le imprese italiane che hanno organizzato corsi per i propri dipendenti nel 2020 sono state circa 263.000 (il 19% del totale), mentre nel 2021 si sono raggiunte le 317.000 unità, il 23% del totale.
La finalità della formazione realizzata dalle imprese nel 2020 è stata soprattutto quella di aggiornare il personale già presente in azienda sulle mansioni svolte (dal 71% delle imprese), mentre risultano meno frequenti le attività formative finalizzate a formare i neo-assunti (16% dei casi) o a formare il personale già presente per svolgere mansioni nuove (13%).
La formazione continua è, in definitiva, riconosciuta come un elemento portante per permettere agli individui di apprendere le competenze necessarie ad affrontare i cambiamenti sociali, economici e lavorativi che stanno trasformando le società.
La pandemia ha ulteriormente accelerato questi trend, stravolgendo equilibri socio-economici e modificando le competenze richieste ai lavoratori.
Investire in formazione è, quindi, uno stimolo alla produttività e le aziende che lo fanno crescono e si evolvono in maniera sostenibile nel tempo, guadagnando di anno in anno quote di mercato.