L’intervista di Dario Di Vico al presidente Legacoop Gamberini sul Corriere della Sera di oggi, lunedì 13 marzo.
NO PREGIUDIZI SU MELONI. ABBIAMO IMPRESE DA INVIDIARE
“Simone Gamberini è da una settimana il nuovo presidente di Lega Coop. È bolognese, 49 anni, ha creato la prima cooperativa a 20 anni, ma è stato per dieci sindaco nel suo comune (Casalecchio sul Reno) per poi tornare nel mondo della cooperazione. Al congresso si è presentato come «candidato unitario», scelto dunque da una consultazione preventiva e ha preparato l’assemblea della nomina con un tour presso le organizzazioni decentrate di tutta Italia assieme al presidente uscente Mauro Lusetti. Modi pacati, ha pronunciato il discorso finale del congresso a velocità-Mentana, ha dietro di sé i grandi capitani delle imprese Coop e quindi si può permettere di promettere «discontinuità».
Ho seguito il vostro congresso e ho avuto l’impressione che si sia parlato moltissimo di «identità distintiva» della Lega Coop, molto di grandi temi planetari e poco di economia. E dello stato di salute delle imprese che rappresentate.
«Il congresso è stata la tappa finale di un lungo processo di consultazione durato 5 mesi che è servito proprio per discutere dei settori e delle nostre imprese, diciamo che avevamo già fatto i compiti».
Ci spiega cosa voglia dire oggi l’espressione «identità distintiva»?
«Riaffermare la diversità della cooperazione. Il nostro tradizionale posizionamento culturale e la nostra piattaforma valoriale sono stati come saccheggiati dallo spostamento di parte del mondo delle imprese verso gli obiettivi Esg e quindi sentiamo la necessità di aggiornare la nostra identità. È paradossale che lo spirito del tempo si muova verso il mutualismo e noi non siamo in grado di intercettare questo trend. Di tradurre quelle novità nella scelta concreta della forma cooperativa come modo di fare impresa. Il commercialista-tipo se ha davanti un gruppo di giovani propone loro di fondare una Srl e non una coop».
Un motivo reputazionale sta forse nel peso che nella comunicazione pubblica ha assunto l’espressione false cooperative?
«Anche. Le false cooperative esistevano già nei primi del 900 e i deputati nel Parlamento del 1919 ne denunciavano l’azione di dumping. Il fenomeno è lo stesso anche oggi. Ma devo dire che le cose stanno cambiando vuoi perché nella logistica ormai c’è una girandola di Srl che purtroppo assolvono a quella funzione e poi perché è sempre più chiaro chi siamo noi e chi sono i falsari».
Veniamo ai business. L’edilizia cooperativa ha subito una ristrutturazione feroce, sono sparite tante grandi imprese. È un dato definitivo o pensate di risalire la corrente?
«È stato un disastro del settore e non delle sole coop e questo per la mancanza di una politica industriale. E a pagarne le conseguenze è l’intero sistema Italia, perché alla fine mancano player in grado di realizzare infrastrutture complesse. Però non mi nascondo, la botta c’è stata. Una volta l’edilizia rappresentava il 20% del nostro fatturato complessivo, oggi è al 10%. Sono spariti marchi storici e, con il senno di poi, alcune di quelle imprese forse potevano essere salvate e non liquidate. Sarebbe bastato che lo Stato si fosse comportato con noi come ha fatto con i grandi privati. Ma quel 10% oggi è fatto da imprese sane e patrimonializzate».
È cambiato però il loro modello di business.
«In qualche modo sì. Penso a Cmb che si è specializzata nell’edilizia ospedaliera e nelle strutture in altezza raggiungendo posizioni di assoluta eccellenza sul mercato. Oggi siamo in grado di scegliere e di non inseguire le gare al massimo ribasso. Quindi ci siamo focalizzati e specializzati mantenendo una marginalità sufficiente. Un approccio differente dagli altri player italiani del settore».
Nella grande distribuzione la stagione dell’inflazione alta vede costi che crescono e consumi che calano. Quali strategie hanno adottato le vostre imprese? Ed è giusto dire che le aggregazioni che avete varato al vostro interno non hanno dato i risultati sperati?
«Intanto sommando Conad e CoopItalia il mondo cooperativo presidia circa il 30% del mercato, non va dimenticato. Poi è evidente che dobbiamo essere fedeli al radicamento storico delle coop di consumo. Noi diamo la priorità ai bisogni espressi dai nostri soci, non sempre alle indicazioni delle indagini di mercato. Non ci scegliamo i clienti, siamo fedeli ai territori anche a costo di pagarlo in termini di marginalità. Quanto all’inflazione abbiamo scelto di assorbire parte degli aumenti e di non scaricarli a valle: anche i privati quando hanno fatto, temporaneamente, la stessa scelta l’hanno pagata. Non si scappa».
C’è una prospettiva di internazionalizzazione per la vostra grande distribuzione organizzata?
«Una cooperativa esiste anche a Saint Moritz, ma a parte la battuta il nostro scopo è quello di rispondere alle esigenze dei consumatori e dei dettaglianti quindi restiamo dentro i confini».
L’agro-alimentare vi ha dato qualche soddisfazione in più. La recente indagine di Taste sui formaggi ha visto nelle prime posizioni mondiali Parmigiano Reggiano e Grana Padano.
«Siamo presenti in tre filiere-chiave come latte/formaggi, olio e vino e in tutte siamo riusciti a costruire piattaforme di trasformazione e di distribuzione di eccellenza. Le imprese più strutturate esportano il 40%, ma in alcune nicchie raggiungiamo l’80% valorizzando le Dop e i prodotti del territorio. Diciamo che nell’agro-alimentare siamo riusciti a interpretare meglio che altrove il bisogno di innovazione e rappresentiamo un veicolo straordinario per favorire l’esportazione delle produzioni agro-alimentari Made in Italy».
Al punto da diventare il vostro primo settore?
«Non ancora, la grande distribuzione pesa oggi per il 40% circa dell’intero sistema coop. C’è equilibrio, in termini di fatturato e di occupati, tra agro-alimentare, produzione e servizi e cooperazione sociale. Quest’ultima con percentuali di crescita importanti negli ultimi dieci anni».
La logistica è un punto dolente? Siete prevalentemente presenti nel facchinaggio.
«Guardi che sbaglia. Fino a 10 anni fa era così mentre oggi ci siamo spostati verso la parte alta del business. Gestiamo chiavi in mano intere catene distributive. Ci sono nostre imprese zeppe di ingegneri e abbiamo almeno 7 gruppi, frutto di aggregazioni e fusioni, con 200 milioni di fatturato. Quella che ci manca, non solo in questo settore, è la partnership finanziaria, soggetti disposti a investire su di noi senza chiederci di diventare delle Spa».
Passiamo alle assicurazioni e quella che potremmo definire la relazione speciale che avete con Unipol.
«Unipol è un grande gruppo assicurativo il cui controllo è saldamente in mano alla cooperazione di consumo, che ha sostenuto insieme al mercato il processo di crescita della compagnia. Quanto poi alle performance non possiamo che considerarla una storia e un investimento di successo».
Lei concludendo il congresso ha detto che l’Alleanza delle Cooperative che vede voi assieme a Confcooperative e Agci non può aspirare all’unità organica. Addio sogni di gloria?
«L’unità organica abbiamo capito che non è realizzabile perché è difficile fondere organizzazioni così diverse per modelli di funzionamento, basi sociali e rapporto con le imprese. Ma la mia intenzione è quella di spronare tutti a uscire dall’impasse di oggi e a darci traguardi intermedi. Penso a strutture unitarie su singoli obiettivi come, ad esempio, la lotta alle false coop. Niente fusione ma tante azioni comuni».
I vostri alleati vi criticano per il rapporto con la politica, per le porte girevoli usate dai vostri dirigenti: una volta per assumere incarichi nelle amministrazioni e una volta per tornare a fare i cooperatori. Darete un taglio a questa tradizione?
«Non credo all’incompatibilità assoluta. Sono stato sindaco per 10 anni del mio Comune ed è stata un’esperienza formativa di assoluta qualità. Amministrare non è una cosa negativa così come essere eletto in un’assemblea, fosse anche il Parlamento. Oggi già così poche competenze si avvicinano alla politica e noi pensiamo di escluderne delle altre a prescindere?
Ma le porte girevoli riguardano unicamente il Pd e non altri partiti.
«Storicamente noi nasciamo da un’area culturale di sinistra progressista e di cattolicesimo democratico e non credo che ci sia qualcosa di male. L’importante è che come Lega Coop la nostra azione di rappresentanza non sia legittimata dal legame con questo o quel partito.
Con questo o quel governo. Traiamo legittimazione unicamente dalla nostra base sociale e ne rappresentiamo i bisogni e gli interessi senza pregiudiziali».
E allora che giudizio dà dell’operato del governo Meloni?
«Il governo è in carica da soli sei mesi, siamo consapevoli delle difficoltà del momento, auspichiamo con spirito costruttivo che riesca ad affrontare le tante emergenze del Paese, la sburocratizzazione della pa, le troppe disuguaglianze territoriali ed economiche, un fisco che non premia chi lavora o investe, i giovani costretti ad emigrare per realizzare i propri desideri. Su questi temi Legacoop è pronta a fare la sua parte senza pregiudizi, come abbiamo fatto nel nostro congresso confrontandoci con ministri ed esponenti del governo Meloni».
Nell’intervento finale, parlando del capitalismo ha usato l’aggettivo «estrattivo». Anche nei discorsi di altri dirigenti ho ascoltato termini analoghi. Siete così pessimisti sullo stato di salute dell’economia di mercato?
«Mi riferivo alle piattaforme tecnologiche, alle Big Tech che si comportano rispetto al mercato con una logica puramente estrattiva. Non voglio generalizzare. Il mio non era un giudizio complessivo sul capitalismo italiano».
Nel congresso diversi dirigenti hanno denunciato che spesso i vostri soci-lavoratori non arrivano a fine mese, sono dei working poors. È una novità inquietante.
«Purtroppo sì. Ci riferiamo a chi opera negli appalti pubblici o nel settore delle pulizie e si vede imposto il part time involontario già in sede di gara. Sono i frutti della cultura del massimo ribasso, palese o occulto».
Una curiosità: nei materiali preparatori del vostro congresso avete usato la schwa. Perché questa scelta?
«È stata una proposta avanzata da chi nell’organizzazione si occupa di politiche di genere e l’abbiamo adottata per sottolineare, come già dal linguaggio, la cooperazione si presenta come un’offerta di inclusione».
Chiudo. Parlando del suo predecessore Mauro Lusetti lei ha sottolineato «siamo diversi». Quindi avremo molta discontinuità durante il suo nuovo mandato?
«Mauro ha guidato l’organizzazione in anni difficili. Certo, siamo diversi nel modo di interpretare il ruolo, io sono più interventista e più legato alla concretezza dei processi in virtù delle esperienze che ho fatto. Penso che Lega Coop oltre all’azione di rappresentanza dovrà sostenere l’attività delle cooperative per rafforzarne la capacità di competere, valorizzando il loro impegno per la sostenibilità e l’inclusione. Quindi sono diverso da lui anche e soprattutto perché sono diversi i tempi e le sfide che ci aspettano.”