Recovery Fund: fondi sprecati se l’Italia non fa le riforme

Per il presidente di Société Générale il sistema economico italiano rimarrà arido, incapace di trasformare risorse pubbliche in ricchezza diffusa e in minori disuguaglianze se non si risolvono i nodi strutturali del Paese

Pubblicato su il sole 24 ore il 25 settembre 2020 di Lorenzo Bini Smaghi

Se si vuole capire perché l’economia italiana è cresciuta poco in questi ultimi venti anni, ben al di sotto della media europea, basta ripercorrere il dibattito che si è svolto intorno al Recovery Fund.

L’obiettivo, durante il negoziato, era quello di ottenere più risorse possibili, magari a “fondo perduto” e senza condizioni. Ottenuti i fondi, l’obiettivo è ora quello di riuscire a spenderli. Non è semplice, in effetti, perché in passato il paese ha mostrato una bassa capacità sia progettuale sia di assorbimento dei flussi finanziari.

Dove è il problema? Il problema è quello di credere che la crescita dell’economia italiana dipenda principalmente dagli investimenti pubblici, tanto più se finanziati a debito – anche se si tratta di debito europeo.

Intendiamoci, gli investimenti sono necessari, come è necessario il seme per far nascere una pianta. Ma non sono sufficienti. Sono molto più importanti altri fattori, come la fertilità del terreno nel quale si semina, la cura con la quale viene trattata la pianta e la quantità d’acqua data per irrigarla, giorno dopo giorno. Seminare in un terreno arido e incolto non serve a nulla, se non a sprecare risorse, soprattutto quando sono prese a debito.

È vero che in rapporto al Prodotto lordo del paese gli investimenti pubblici italiani sono gradualmente calati negli ultimi 20 anni, da circa il 3% del periodo 2001-05 al 2,3% per cento dello scorso anno. Non si tratta tuttavia di una tendenza molto diversa da quella media degli altri paesi europei. Il calo tendenziale degli investimenti pubblici, comune a molti paesi, non è sufficiente a spiegare la peggior performance di crescita italiana, prima e dopo la crisi.

Il livello degli investimenti pubblici italiano, pur essendo lievemente inferiore alla media europea, è peraltro più elevato di alcuni paesi, come la Spagna, il Portogallo e in alcuni periodi anche dell’Irlanda, del Belgio e della Germania, che sono cresciuti molto più di noi.

Questi dati confermano che non conta tanto la quantità di investimenti quanto il dinamismo sottostante del sistema economico nel quale tali investimenti vengono innestati e la capacità di far sbocciare nuova crescita e nuova occupazione. Ciò è in linea anche con l’esperienza di paesi non europei, come il Giappone, che negli ultimi trent’anni ha sprecato numerosi piani di investimento con pochissimo impatto economico.

Il motivo per cui l’economia italiana non è cresciuta negli ultimi 20 anni non è tanto l’assenza di investimenti quanto la mancanza di un terreno fertile affinché gli investimenti possano produrre effetti moltiplicatori positivi per lo sviluppo dell’intera economia. Pensare ora che un’accelerazione degli investimenti, anche per ammontari ingenti, sia sufficiente a rilanciare la crescita e colmare il divario con gli altri paesi è una illusione.

Tanto per fare un esempio, investire miliardi per ristrutturare le nostre scuole fatiscenti, dotare gli alunni di computer e i laboratori di macchinari sofisticati è utile ma rischia di non produrre nessun effetto significativo sul grado di preparazione degli studenti e sulla qualità della ricerca italiana se i professori e i ricercatori non vengono selezionati secondo criteri meritocratici. L’unico risultato rischia di essere quello di continuare a spingere i giovani migliori ad emigrare all’estero. Senza una profonda riforma dell’istruzione, investirvi è poco produttivo.

Il paradosso è che tutto ciò è ben noto. Ciascun governo degli ultimi vent’anni ha presentato, anno dopo anno, un piano nazionale di riforme, sempre con le stesse priorità. Questi piani sono stati poi sistematicamente disattesi.

Anche questa volta è previsto un piano di riforme, denominate “politiche di sostegno”. Nella maggior parte dei casi sono previste leggi delega entro la primavera del 2021, con l’emissione dei decreti applicativi entro la fine del prossimo anno.

Il calendario è molto stretto. L’auspicio è che venga accelerato e soprattutto che i provvedimenti siano finalmente improntati a rendere il sistema economico italiano meno imbrigliato, più fertile e maggiormente capace di liberare energie produttive.

Il rischio, altrimenti, non è tanto quello di non riuscire a spendere i fondi, come avvenuto in passato, ma che i fondi siano sprecati. Ci ritroveremo in quel caso più poveri, e più indebitati.

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